Saturday, 27 April, 2024

Capitolo III – Gli anni dell’Università



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Capitolo III – Gli anni dell’Università

 

“Il caso? Ma è Dio in incognito” (Pailleron)

 

Nella sessione estiva del 1931 Gino aveva sostenuto gli esami di chimica, botanica, zoologia, fisica e preparato in buona parte quello di chimica organica, che avrebbe superato il 31 ottobre: la media del trenta sarebbe stata d’ora in poi una costante. Non si trattava dell’esibizionismo di un uomo dalle straordinarie capacità di apprendimento e memorizzazione: per la chiarezza e vastità delle idee, la logicità dell’esposizione, la cultura, la padronanza assoluta – in poche parole – delle varie discipline, Luigi Di Bella era considerato un autentico fenomeno dai docenti. Finalmente si trovava qualche soldo in tasca, del quale non doveva ringraziare altri che se stesso e poteva guardare al futuro con maggior fiducia.

Messina, Università degli studi

Ma la cosa più importante era che aveva acquisito una maggiore consapevolezza del proprio valore e adesso era confortato e vivificato da un grande amore: c’erano tutte le condizioni perché le sue potenzialità deflagrassero. Esauriti – e digeriti – in breve tempo i libri di testo, rimaneva per giornate intere nella biblioteca universitaria a divorare ponderosi trattati, in italiano o in lingua straniera, capaci talvolta di intimorire gli stessi docenti. E dobbiamo considerare che il corpo docente del tempo era ben diverso da quello che avrebbe immiserito le nostre università nei decenni successivi: non che fossero assenti favoritismi o nepotismi, ma si trattava di eccezioni se vogliamo più numerose del desiderabile, ma pur sempre eccezioni, e per giunta con un limite invalicabile: difficilmente una nullità poteva conseguire una cattedra. Sono cose che oggi possono lasciarci increduli, ma la prassi era proprio come da noi riferito. Ebbene, quei docenti, quando Luigi Di Bella si era registrato per sostenere qualche esame, mandavano a chiamare i colleghi di altre materie ed anche di altre facoltà scientifiche: un po’ per ascoltarlo; un po’ per imparare; un po’, anche, nella maliziosa speranza di cogliere un collega in difficoltà di fronte a quella singolare matricola. Ma avrebbe sbagliato chi lo avesse giudicato uomo pieno di sé, appagato, soddisfatto dell’avere riscattato un’esistenza di stenti, umiliazioni e miseria. Il giovane studioso era da una parte sbigottito, per avere intravisto l’abisso dell’ignoranza umana, dall’altra, pervaso dall’incanto della natura e da una religiosa ammirazione per la genialità e la perfezione del creato. In un’epoca come la nostra, nella quale più che in passato si ironizza su quanto la propria mediocrità non consente di comprendere, si tende ad etichettare come recita il sublime e come stravaganti sentimentalismi i vertici di pensiero e poesia raggiunti dai grandi uomini; in un’epoca, insomma, cieca, sorda ed inconsapevolmente ridicola, i rapimenti spirituali di un Luigi Di Bella rischiano di non venire sentiti e, quindi, capiti. E’ questa la vera tragedia dell’umanità. Oggi si riderebbe di fronte ad un Beethoven che corre per il bosco inseguito dalla febbre dell’ispirazione o ad un Michelangelo, privo di coscienza per la realtà esterna, che libera dal marmo le verità supreme dello spirito. Si ride infatti di quanto e di chi non si capisce. La stupidità è poliglotta e senza tempo e l’imbecille ghigna sempre, dall’inizio alla fine della vita, disarmonico ronzìo nell’armonia del creato.

Il riferimento a due sommi artisti ed il ricorso ad un sostantivo quale “ispirazione”, sembrerebbero impropri parlando della vita e della personalità di uno scienziato, ma a parere di chi scrive non esiste nulla di profondo e di grande che non si sia immerso nelle acque dell’ideale prima di prendere quota. Gli scienziati che fanno la storia della scienza appartengono di diritto alla genìa degli artisti: in entrambi i casi si tratta di creatori. I tecnici della scienza, pur capaci, non sono scienziati; non si possono definire tali, anche se raggiungono a volte risultati di un certo peso e fanno sgranare tanto d’occhi ai profani: perché si servono della logica meno evoluta, quella totalmente umana, che procede per piccoli passi, incapace di guardare oltre la lunghezza d’un passo. Il vero scienziato ha qualcosa nella sua mente che gli fa intravvedere itinerari lontani e lo fa volare a grandi distanze: ma anche questa è logica assoluta, logica matematica. Il balenare della grande intuizione, in una frazione di secondo può approssimare le energie e le potenzialità di un’intera generazione e spesso lascia confuso ed incredulo lo stesso autore della grande scoperta che, tornato alla sua pur elevata ordinarietà, stenta a spiegare a se stesso l’itinerario logico seguìto. Non si tratta di anacronistico romanticismo, ma di verità. Magari, dopo la scomparsa di uno scienziato, qualche tecnico della scienza commenterà: “Ma, in fondo, era relativamente facile arrivarci. Chissà perché, l’avevamo davanti al naso e non lo abbiamo visto”. La capacità di certe menti di accelerazioni fulminanti è, sotto un certo profilo, quella che denota sia l’artista, nel senso stretto del termine, che il vero scienziato: altro non è che il dono di evadere nel transumano pur rimanendo umani. Allo stesso modo, chi davvero comprende l’arte, sa che c’è altrettanta rigorosa logica nella sinfonia “Jupiter” di Mozart che in un trattato di fisica: l’unica differenza è che nella musica del grande salisburghese troviamo una logica trascendentale e non codificabile con la greve rappresentatività simbolica della parola. D’altronde, se nell’era dell’energia atomica e delle navicelle spaziali l’uomo non riesce a costruire nemmeno una singola cellula vegetale, evidentemente la logica della più minuta ed elementare entità vivente non è ancora alla sua portata. Oggi ci si smarrisce in una selva di neologismi, di slogan, di re nudi, ma si ignorano le tre parole più importanti della storia dell’umanità, tre parole capaci di redimere il mondo: le celebri ”καλος και αγαξος” (“kalòs kai agatòs”: bello e buono), simbolo dell’eredità lasciataci dall’ “über alles” dei popoli: quello degli antichi Greci. La bellezza della bontà e la bontà della bellezza, ma anche – e questo è il filo conduttore dell’uomo e scienziato Luigi Di Bella – la bellezza dell’indagine scientifica, delle sue conquiste e dell’infinito bene che ne può scaturire. E vivere nella costellazione della bellezza e della bontà, significa abbeverarsi alla fonte della gioia.

Aus der Wahrheit Feuerspiegel
Lächelt sie en Forscher an;
Zu der Tugend steilem Hügel
Leitet sie des Dulders Bahn.
Auf des Glaubens Sonnenberge
Sieht man ihre Fahnen wehn,
Durch den Riss gesprengter Särge
Sie im Chor der Engel stehn. 1

Senza preordinazione, abbiamo evocato il popolo greco ed il popolo che probabilmente più di ogni altro merita d’esserne considerato l’erede: quello tedesco. E qui entra in ballo la potente e genuina sicilianità dello scienziato, la misteriosa pozione di sangue normanno e di sangue greco, senza considerare la quale è difficile o impossibile comprendere a fondo Verga o Pirandello, Tomasi di Lampedusa o Luigi Di Bella.

 

***

I due fidanzati comunicavano come potevano, nella clandestinità più totale. Giuseppe Costa, chiamato Peppino, u masculu ‘da casa, visto che Tonuccio era un bimbo, svolgeva il suo compito di frater vigilans, interpretando con rigore il ruolo che le consuetudini allora correnti, particolarmente ortodosse nella società siciliana, gli assegnavano: ovviamente fu l’ultimo, qualche anno dopo, ad accorgersi della…tresca e ad esserne informato compiutamente dalla madre e dalle sorelle. Ma per il momento costituiva uno spauracchio per Ciccina che a volte si trovava a dover scrivere nelle posture più scomode e di fretta per non venir sorpresa. Quando biglietti o lettere non erano scambiati con destrezza tra gli interessati, poteva sopperire qualche complice, nella persona di Ciccina Di Bella, Filomena o della comare Emilia, signora intima di casa Costa. Gli scritti di Gino sono a matita o con un inchiostro violetto ed utilizzano qualsiasi pezzo di carta gli capiti sotto mano. La sua calligrafia chiarissima, ma sconsigliabile ai deboli di vista, gli consentiva di scrivere a lungo su superfici ridotte; tra queste alcuni biglietti da visita che, come si usava per studenti, specie della facoltà di medicina, si era fatto stampare dopo il famoso assegno di cinquemila lire: “Luigi Di Bella, studente in medicina, Isolato 386 Boccetta – Messina – tel. 11.636”. L’indirizzo era quello di Filippo, l’unico che riteneva potersi permettere il lusso di un telefono in casa. Con la fidanzata si scambiarono le fotografie, anche se quella di Ciccina (che temeva di insospettire Peppino recandosi da un fotografo), tardò un poco. La felicità di un amore corrisposto non poteva, naturalmente, annullare le ferite delle pene e delle tante umiliazioni accumulate, ferite che si manifestavano con momenti di cupezza d’animo ed acuto pessimismo. Ogni tanto si affacciavano il timore di non essere veramente amato, di sfigurare accanto alla bellezza dell’amata, l’amarezza per le incomprensioni familiari: sentimenti che collaboravano ad originare fasi di profondo scoraggiamento. Queste – come si legge in qualche lettera – talvolta lo portavano a pensare alla morte quale liberazione da una sorte crudele. Ma la forza d’animo ed un certo ribrezzo ad arrendersi alle difficoltà gli venivano prima o poi in aiuto. Carolina Costa lo aveva subito preso a ben volere, prontamente ricambiata: “…mi sono affezionato a tua madre come se fosse mia madre ed anche a lei confiderei tutto” scrive il 26 aprile del ’31.

I fratelli Costa in una foto insieme a parenti del 1931: a sinistra Peppino, in primo piano Sara, Tonuccio, Francesca (Ciccina), Citta.

Nella stessa lettera descrive il suo studiare continuo, che comunque non gli faceva dimenticare il mondo esterno e la bellezza che lo circondava: ….sono solo in casa e fuori suona un flauto. Sai che effetti produce il suono nel mio animo? Mi estranio da questo mondo e mi sento sollevare su, su verso un mondo d’infinito…la musica mi fa pensare a te”. Il 4 ottobre, ricorrenza dell’onomastico della fidanzata, le regalò una medaglietta d’oro, con l’iscrizione “a Ciccina”: che dovette a questa sembrare un po’ generica, incompiuta…..ma Gino si era sentito in imbarazzo al momento di ordinare il testo dell’incisione al gioielliere. E così fu pure tre anni dopo, quando donò alla fidanzata un’altra medaglietta da collanina.

E furono conseguenze decisive. Due ordinari di cattedra se lo disputarono ed il giovane studente del prim’anno non fu oggetto, ma in un certo senso autore di scelta. Scelta facile, visto che il Prof. Pietro Tullio era considerato il più eminente fisiologo d’Italia ed un autentico luminare a livello mondiale. Personaggio straordinario, grande mente ed uomo di cultura vasta ed eclettica quanto coriaceo d’indole, Tullio non tollerava mediocrità e nemmeno ordinarietà d’intelletto e trattava a pesci in faccia chi non gli andava a genio: studenti, assistenti, colleghi, presidi di facoltà o magnifici rettori, non faceva differenza. Il prestigio del quale godeva e l’essere in familiarità con la casa reale, ne facevano un personaggio potente, anche se l’elevatezza e la profondità dei suoi interessi scientifici lo portavano ad ignorare le fazioni universitarie e le regole di buona creanza accademica, delle quali si infischiava altamente. Era tutto intriso di cultura e mentalità germanica, nel solco della tradizione di Augusto Murri (1841-1932) e, ancor di più, del maestro Pietro Albertoni (1849-1933), considerati i due più grandi medici della storia della medicina: infatti scienza, e in particolare fisiologia, significava allora atenei e scienziati non esclusivamente ma prevalentemente tedeschi. Murri, dopo la laurea in medicina, si era recato in Germania a studiare per alcuni anni fisiologia ed analoga era stata la formazione di Albertoni. Come questo, Tullio aveva conseguito il baccellierato a Vienna, per concludere gli studi presso l’Ateneo di Bologna, allora autentico faro della medicina occidentale. E di Pietro Albertoni poteva bene considerarsi l’epigono. Se il lavoro più noto era la monumentale monografia di 460 pagine “Das Ohr und die Enstehung der Sprache und Schrift”, (“l’orecchio e la formazione del linguaggio e della scrittura”) pubblicata nel 1929 a Berlino ed a Vienna, sulla correlazione tra riflessi sonori e formazione della parola e della scrittura, e che avrebbe portato nel 1930 e nel 1932 alla sua candidatura al premio Nobel per la medicina2 (oltre alla nota a piè di pagina la candidatura documentata è stata riportata anche nel documentario nel Documentario Metodo Di Bella – 20 anni dopo (1997-2017) 3 di preciso nel video – nel nome il link alla piattaforma Vimeo dove il video è ospitato e il punto esatto da 8’02” fino a 8’21”Metodo Di Bella – 20 anni dopo ( 1997 – 2017) Testimonianze (1 parte), n.d.r.), il suo nome già figurava accanto a quello di Albertoni in diverse pubblicazioni4.

Il prof. Pietro Tullio (a sinistra) insieme al fratello Giovanni durante la Ia guerra mondiale. Alle loro spalle un congiunto.

La sua opera ha posto pietre miliari nel campo della fisiologia e della neurofisiologia, inquadrandosi in quella fioritura di studi ed acquisizioni dei grandi ricercatori europei d’anteguerra che ha costituito – per certi versi – il canto del cigno della ricerca scientifica pura, libera dagli interessati condizionamenti del potere farmaceutico: Luigi Di Bella a parte, s’intende. Nato a San Vito al Tagliamento nel 1881, proveniva da una agiata famiglia dell’aristocrazia friulana che gli aveva consentito un’istruzione raffinata ed importanti relazioni sociali.

La vasta notorietà, assicuratagli dalle sue opere presso gli ambienti scientifici di tutto il mondo, era stata ulteriormente rafforzata dal prestigio della gloriosa scuola medica dalla quale proveniva. L’essere celibe, il desiderio di conoscere luoghi e persone, ma soprattutto una indomabile inquietudine interiore, lo avevano o lo avrebbero condotto da Bologna a Cagliari, da Messina a Bari, da Parma a Genova. Poliglotta, dotato di una profonda cultura classica ed umanistica che gli consentiva di declamare a memoria versi dei lirici greci e latini e parecchi canti della Divina Commedia, appassionato e raffinato melomane, era l’uomo che poteva comprendere e valorizzare un Luigi Di Bella. I due, sotto il profilo caratteriale, non potevano essere più diversi: laconico, riservato, modesto l’uno quanto logorroico, estroverso, superbo l’altro. Tratti certo influenzati dalla diversa posizione sociale ed economica delle rispettive famiglie. Se Luigi aveva dovuto salire ad uno ad uno i gradini della scala, gravato dal peso opprimente della povertà e dell’umiliazione, Pietro si era formato nella sicurezza che ceto e blasone potevano dargli, consapevole di poter spuntare ogni ostilità ed imporre le sue idee. Dove allora la comunione di indoli così diverse? Il loro incontro avveniva nelle sfere più alte dello spirito: no, non è orpello retorico, il nostro, ma espressione plasmata sulla realtà. Nel raccomandare al lettore, specie a quello di formazione scientifica, la lettura di Pietro Tullio, ci limitiamo – per l’economia impostaci dalle finalità di queste pagine – a citare qualche passo di una delle pubblicazioni dello scienziato friulano: “I riflessi sonori e la formazione della parola e della scrittura”, consultabile presso alcune biblioteche statali e riportata nelle note. In quest’opera, elaborata da una conferenza tenuta a Milano il 29 settembre 1929, Tullio ripercorre le tappe della sua ricerca, che per il rigore scientifico di altissimo profilo e la genialità dei collegamenti logici, rimane un esempio, oggi raramente seguito, di che cosa debba considerarsi vera scienza e vera ricerca scientifica. Dopo una introduzione che porta gradualmente al tema ed al fine delle ricerche, Tullio espone fase per fase il procedimento di dimostrazione scientifica del primo assunto: la localizzazione degli stimoli sonori mediante i canali semicircolari, indiscutibilmente constatata in animali nei quali si era provveduto a sgusciare dalla teca i due emisferi cerebrali. Citiamo due passi che, avulsi dal contesto, appaiono suggestivi; letti compiutamente, costituiscono una autentica rivelazione. “Queste diverse reazioni motorie ai suoni mi indussero a ritenere anche la parola come un prodotto dell’ulteriore elaborazione dei riflessi sonori, come un gesto degli organi vocali. E molti ritengono infatti che il primo linguaggio, considerato come mezzo per trasmettere ad altri l’elaborato della nostra mente, sia rappresentato dal gesto. Indizio di ciò è anche il fatto che nella evoluzione individuale, nello sviluppo del bambino esso compare prima della parola che, benché compresa, non è ancora emessa. E’ noto il verso: ‘incipe, parve puer, risu cognoscere matrem’ ed è appunto il riso una delle prime manifestazioni psichiche del bambino che riconosce la madre, sua vita, sua gioia, alimento. Poi insorgono spontaneamente moti indicanti oggetti desiderati, incitanti atti come per esempio sarebbero il bere, il mangiare, il correre, l’operare. Ma in seguito la necessità di comunicare i propri avvertimenti, gli incitamenti, i desideri, i comandi anche in condizioni che avrebbero totalmente ostacolata la loro trasmissione, fece insorgere il bisogno di sostituire al gesto della mano quello della bocca, alla vista l’udito, inducendo così la voce a seguire ogni gesto, ogni pensiero. La parola fu chiamata quindi gesto vocale e tale fu considerata dal Paget, l’imitatore delle vocali per mezzo di modelli artificiali. Quel moto che ad ogni improvvisa luce, che ad ogni rapido contatto della cute, che ad ogni sollevarsi del suono invade, come abbiamo visto, tutta la muscolatura del corpo, quel moto, dico, si è propagato anche al tubo fonetico e si è impresso alle fibre muscolari che lo fasciano e agli ostii che lo dividono in parti successive. Il tubo fonetico poi trasmette questa impressione ricevuta all’aria, alla voce e la articola a significare le variazioni meccaniche, luminose ed acustiche che hanno stimolato i sensi esterni, i sentimenti, le passioni, i pensieri degli esseri che con la natura convivono”. Ma è nella conclusione del lavoro, dove si coglie l’intima essenza dell’acquisizione conseguita, che il lettore si rende conto dell’importanza e dell’elevatezza dell’indagine: “…il riflesso è l’atto elementare del sistema nervoso per il quale ogni stimolo o tattile o luminoso o acustico, a seconda della sua posizione, dà luogo ad un moto differente e tale da essere perfettamente localizzato nello spazio. Ora noi possiamo concepire questi riflessi orientativi come ordinati in tre sfere concentriche analogamente operanti. Esse sono formate da tanti punti sensibili, ognuno dei quali può causare un riflesso che vale ad orientare l’organismo, e a far coincidere il suo asse visivo con la direzione dello stimolo, coll’asse vettoriale che dal centro della sfera si porta al punto colpito… …nello stesso tempo che tracciamo la linea nel campo ottico, essendo questo collegato agli altri per i riflessi motori comuni, essa passa anche al campo tattile, e non solo vediamo la linea ma anche la tracciamo nello spazio, ne abbiamo cioè la sensazione, diremo, stereognostica. Ma essa si disegna anche nel campo sonoro dove il suono dà contemporaneamente origine alle curve sonore, alla scrittura, alla parola. Questi tre meccanismi riflessi orientativi sono perfettamente similari e connessi tra loro e sulla loro mutua corrispondenza si posa l’armonia delle funzioni della mente”. Immediatamente dopo questa chiusura continua: “Dante, giunto nel Paradiso nella sfera del sole, si vede circondato da più ghirlande di spiriti beati cerchiati di luce…Ora per dimostrare la mirabile armonia che li unisce nell’unità della Chiesa, Dante immagina che essi fra loro corrispondano attraverso quei tre moti, quelle tre vibrazioni, quelle tre sensazioni soltanto per le quali gli uomini possono fra loro comprendersi ed unirsi: la più terrena, il contatto, la più umana, il suono, la più celeste, la luce”.

Dalle vette della scienza alle vette della poesia, mondi non separati, ma orbite dello stesso astro: anche Tullio era un “poeta della scienza” e riconobbe subito in Luigi Di Bella i segni della comune stirpe, in un mondo deserto di propri simili, non appena l’ebbe di fronte. Insomma: erano entrambi due angeli in borghese, ed il più anziano aveva riconosciuto il più giovane sotto le mentite spoglie di uomo.

Bologna, 1932: con il Prof. Tullio

Il primo incontro rispecchia il carattere dello scienziato, i suoi modi spicci, l’andare subito al dunque.

    • Che lingue conosci?
    • L’inglese ed il francese li ho studiati a scuola, lo spagnolo per conto mio, professore.
    • Ed il tedesco?
    • No, professore.
    • Uhhhhh, quanto sei ignorante! – allargando sconsolato le braccia – Studialo! concluse, girando i tacchi.

Dopo qualche giorno ‘Herr’ Tullio gli comprò una grammatica tedesca e Luigi cominciò a studiare: alla sua maniera. Dopo qualche tempo, una mattina il professore gli diede in mano il volumetto dei Reisebilder, i Quaderni di viaggio di Heinrich Heine, il grande romantico tedesco. L’edizione contemperava il testo originale ed una traduzione letterale:

“Ecco qua”, disse. “Traduci e poi controlla se ci hai preso. Inizia così. Se traduci dall’italiano in tedesco chi ti dirà se hai fatto giusto o scritto delle castronerie?”.

Logico, semplice, inappuntabile. Lo stile che andava a genio all’allievo. Si intesero d’incanto ed il bisbetico, diffidente grande Pietro trovò pane per i suoi denti: se ne compiacque e manifestò col tempo la vera sua natura di burbero benefico.

Abbastanza copiosa la corrispondenza di quel periodo giunta a noi: abbondano espressioni piene di poesia, particolari della quotidianità, eventi importanti. Il lavoro all’istituto di fisiologia era spossante, dato che si univano l’entusiasmo all’ossessivo rigore scientifico, la sua laboriosità alle incontentabili richieste di Tullio. Passione ed amore gli facevano superare ogni ostacolo e rafforzavano la sua tempra, portandolo ad una attività instancabile. Il 5 dicembre 1931 scrive: “Angelo adorato…..l’uomo non è mai contento e guai se lo fosse: finirebbe ogni suo ardire, tutto quanto ha di bello e di divino l’essere umano. Ogni ideale svanisce quando si raggiunge……..Io non posso che ispirarmi a te per migliorare sempre me stesso. Solo la donna ha questo potere e tu sola hai questo qualcosa d’infinito per me, che modella e plasma con le sue aspirazioni il mio carattere”.

Un biglietto furtivo ci informa del Natale di quell’anno. Luigi gironzola per ore accanto alla chiesa dell’Immacolata, contando di vedere la fidanzata alla messa di mezzanotte. Osserva chi entra, a volte si illude di avere scorto Ciccina, si sposta, pensa che sia all’interno, o che per un qualche motivo sia andata a messa in un’altra chiesa. Quando esce l’ultima persona, a funzione finita, desiste e si incammina lentamente verso casa. Un vento leggero porta a folate il profumo conturbante del mare e lo sguardo vaga tra il cielo stellato e le finestre imporporate dalla tremula luce dei lumi, tra le lucciole ammiccanti di casolari sulle colline e la visione fugace di una mamma che spegne ad una ad una le candeline dell’abete natalizio. E’ notte fonda quando infreddolito, le mani nelle tasche, passa rassegnato ed immalinconito accanto la baracca dei Costa. Sosta brevemente e, guardando le finestre serrate e buie, si rasserena pensando all’amata immersa in placidi sogni.

Con il nuovo anno il rapporto con Tullio si fa più confidenziale. Tra la meraviglia e l’orgoglio ferito di tanti, il luminare si interessa alla vita di quell’allievo interno che gli tiene testa, comprende al volo le finalità delle ricerche prospettate, supera le sue pur asfissianti pretese. Rimarrà turbato venendo a sapere della povertà estrema nella quale è vissuto e delle economie spietate alle quali si sottopone: in un attestato del 1938, che più avanti citeremo integralmente, parlerà delle “disperate condizioni economiche” dell’allievo. Nel marzo 1932 sono in via di ultimazione i primi tre lavori frutto della ricerca all’istituto di fisiologia. Nel corso degli esperimenti relativi ad uno di questi, Luigi rischia di perdere la vita. Si trattava di ricerche iniziate in seguito ad un’osservazione di quel particolare «allievo interno»: toccando con una bacchetta metallica il preparato neuromuscolare ‘alla Galvani’, si produceva la contrazione della zampa della rana. A differenza del famoso esperimento di Galvani, dove il fenomeno era da ascriversi all’elettricità atmosferica, qui la contrazione era indotta dai campi elettrici presenti in un ambiente che, come tanti altri, disponeva di un impianto elettrico. Non era cosa da poco: si trattava della prima evidenza dei campi elettrici variabili, tema sul quale, specie alcuni decenni dopo, si registrerà un enorme interesse scientifico. Una fase degli esperimenti prevedeva il ricorso a corrente alternata dell’ordine anche di quattromila volt: a causa di un contatto accidentale, Luigi viene letteralmente scaraventato a terra dalla scarica e rimane a lungo privo di sensi. La prima visione confusa, riaperti gli occhi, è quella dello sguardo inespressivo dei conigli che lo fissano dalle gabbiette. Senza indugiare sulla furia……friulana che investì gli inservienti, diremo che il pavimento dell’ambiente di lavoro fu subito ricoperto con assi di legno. Ma, passata la paura, sopravviene l’entusiasmo scientifico e Pietro Tullio dice a Luigi: “Io non ti mollo più!”. E siccome il personaggio non parla certo a vanvera, se lo porta dietro a Bologna, dove è di casa ed ha una casa. Partono il 13 marzo 1932 e Luigi, abituato alle panche a listelli della terza classe, viaggia in wagon lit. Il professore parla per tutto il tragitto, di sé, della propria famiglia, della giovinezza….parla in continuazione come tutti i friulani…. è scritto in una lettera a Ciccina. Si fermano a Roma per un giorno. Nella lettera alla fidanzata del 18 marzo: “…il prof. mi tratta con molta confidenza e mi costringe a mangiare più del possibile. Ho gironzolato per le vie mezza giornata e siccome non riuscivo a trovare la via dell’albergo, ho preso un taxi, per due lire”. Lettere successive testimoniano il legame filiale che il burbero fisiologo ha instaurato con lui e l’entusiasmo per il lavoro di ricerca, ma denunciano anche un certo disagio per l’essere lontano dalla sua terra e la tristezza di non poter vedere l’amata. Alloggia nella casa bolognese del professore, in via Malaguti 31, indirizzo al quale invita Ciccina a scrivergli. Si addormenta la sera baciando una crocetta che lei gli ha regalato ed è preso dalla nostalgia. Il 19/3 ricorda: “……il lunedì dell’Angelo del 1928 siamo andati a fare una passeggiata…avevi quell’abito di velluto nero…ci siamo ritirati a casa tua, io ho suonato la cavatina del primo atto della Norma e tu mi voltavi i fogli”. E più avanti: “…domani incominceremo a fotografare tutto il fenomeno……Il professore mi sforza maledettamente a mangiare, e non so come liberarmi della sua assillante pressione”.

Il grande Pietro deve ogni tanto pagare il fio della celebrità e delle relazioni importanti. Curato nel vestire, quando come e se pare a lui, detesta però formalismi ed abiti scomodi: i guai arrivano quando deve presenziare a qualche cerimonia ufficiale, o peggio, quando è invitato dalla famiglia reale in una delle proprie tenute. Allora il suo proverbiale caratteraccio si esalta, ed a farne le spese è l’unica persona che riesce a sopportare a lungo quello scapolo collerico: l’anziana ma combattiva governante Paolina, friulana come lui, ispida come lui, franca sino alla brutalità come lui. Lo conosce fin da quand’era ragazzo e si danno del “tu”. Gli alterchi tra i due sono acrobazie di botte e risposte, in friulano stretto, spumeggiante di battute caustiche e imprecazioni che fischiano come granate in arrivo. Uno di questi episodi, in particolare, rimane nel ricordo del giovane assistente: Pietro è stato invitato dai Reali ed in strada c’è la limousine nera che lo deve accompagnare a San Rossore. Lui, scarlatto in viso, seccatissimo, sbuffa, getta con malgarbo capi di vestiario sul letto, ne cerca altri senza trovarli, rovista, borbotta, impreca per il rigido e scomodo abito da cerimonia e fissa ostile il cilindro che si deve mettere in capo; e ovviamente, cerca di sfogarsi prendendosela con Paolina, vittima di osservazioni e critiche immeritate. Alla fine, sulla soglia di casa, ansimante di rabbia, guarda qualche secondo la governante senza dir parola e poi sbotta in uno: “Son stuffo de tì! Son propprio stuffo!”; e lei acida, stringendo i pugni: “E mì de tì! E mì de tì!”. Dopo che la porta di casa è stata chiusa con malgarbo, lei, seminascosta dalla tendina della finestra, un po’ alterata ancora ed un poco immalinconita, lo segue con lo sguardo mentre coi tratti del viso appena mitigati cammina caracollando, i guanti bianchi nella sinistra, la borsa nella destra, dirigendosi verso l’autista che lo attende impettito accanto allo sportello posteriore spalancato.

Il 27 marzo Tullio parte per la natìa San Vito al Tagliamento a trascorrervi la Pasqua insieme alla famiglia del fratello, e Gino, rimasto solo visto che anche Paolina va a trovare i nipoti, dopo avere accompagnato il maestro alla stazione, scrive a Ciccina:

“Ti scrivo alla luce di una debole lampadina, su un tavolino sotto una bassa finestra che guarda in un giardinetto desolato ed una strada muta. Fischi di locomotive e rumore di convogli che si muovono interrompono questa pensosa quiete. Brutto essere lontani da tutti e poi così, nelle mie condizioni. Qualcun altro nelle mie attuali condizioni avrebbe forse pianto amaramente. Un senso di sconforto sale infatti dalla vista e dalla considerazione di tante cose e invade tutta la persona. Quale contrasto fra tutta la gente che incontravo oggi e me! Erano tutti festosi, sapevano con chi parlare, dove andare; un intimo senso di gioia, di allegria, spensieratezza si leggeva nei loro visi. …Oggi, mentre le campane suonavano la Resurrezione di Cristo, io lavoravo e la gente andava fuori nelle strade al sole splendente e caldo.. Proprio ora mi riconosco essere uomo maturo. Ho un gran dolore in fondo all’anima, sento il vuoto della solitudine, della lontananza da tutti, ma un non so che di forte, di fondato sostiene tutto e mi rende apparentemente tranquillo. So già resistere alla vita, mantenermi bene in brutte circostanze, difendermi, lottare….le aspre amarezze mi abbattono per un istante, ma poi risorgo con nuova lena, con nuovo spirito rivendicatore e travolgente. Sotto forme più o meno palesi so pungere e sfogarmi….l’esperienza mi ha reso guardingo di tutti; ancora molto tempo dovrà passare perché i miei mi capiscano e tu sola potrai custodire l’intimo del mio animo nel tuo divino. La musica, che tanto potere ha sul mio animo, manca completamente qui. Da quindici giorni non tocco il piano e non puoi immaginare quanto desiderio ho di trillare qualche nota”.

E qui già emerge, tra venature di tristezza, quella potenza di carattere che lo caratterizzerà per tutta la vita e lo porterà a trionfare sulle difficoltà più grandi: “…le aspre amarezze mi abbattono per un istante, ma poi risorgo con nuova lena, con nuovo spirito rivendicatore e travolgente”. Le intelligenze più anguste si illuderanno spesso di averlo piegato e stroncato: ma dovranno constatare a proprie spese che non è possibile aver ragione di quel piccolo uomo che tace, sopporta, ma risorge sempre come araba fenice da un rogo al quale non sfuggiranno gli avversari. Suonerà retorico, ma quel figlio dell’Etna ha incendiato il mondo: di fiamme che non possono soffocarsi, perchè fuoco d’ingegno e di amore che ustiona solo chi non conosce né l’uno né l’altro. Ed anche oggi che non respira più tra di noi – anzi più oggi di ieri – chi lo ha perseguitato con ignoranza e cattiveria è costretto a convivere con la sua presenza incombente, da questa soffocato e paralizzato, in preda all’inquietudine al solo evocarne il nome.

 

***

Quando il professore torna a Bologna, si riprende con il lavoro. E’ un periodo di attività intensissima, nel quale le ore di riposo sono ridotte all’essenziale, visto che occorre far coesistere la ricerca con la preparazione degli esami della sessione estiva. Il soggiorno a Bologna si protrae fino al 17 aprile, ma porterà ad un risultato clamoroso. Gli esperimenti, condotti presso i laboratori universitari, sono anche filmati e si accumulano quaderni zeppi di cifre e di precise osservazioni. L’otto aprile, ricevuta una lettera dell’amata, Luigi scrive:

“Nei brutti momenti basta guardare la tua scrittura per risollevarmi. …si succedono giorni di accasciamento e desolazione…mi turbinano allora in mente le peggiori soluzioni di tanti complessi problemi e per ultimo rimedio non penso che il morire. Bella sarebbe una pace difesa da una barriera incrollabile e misteriosa; mi par quasi una rivincita su tante cose e tante persone…Eppure mi pare bella ogni tanto la vita. Quando, mattino ancora, mi sveglio e vedo attraverso i vetri della finestra la bianca luce dei fanali a gas, interrotta vagamente dai ricami dei portali, quando un po’ più tardi vedo biancheggiare il cielo, scomparire le stelle e sento qualche timido trillo gioioso di un uccelletto mattutino, mi pare di essere in un sogno, e con l’occhio velato dal sonno guardo fisso e senza sguardo in qualche punto. ..Preso così da un subitaneo vigore, salto giù dal letto, ed eccomi a tavolino a studiare. Tempero così improvvisi entusiasmi in duro lavoro, le vive gioie e le potenti passioni in pensiero intenso e continuo. Mi pare talora di ritrovare in me stesso la soddisfazione della vita. Non vado fuori a cercarla, ma intingo nella mia ricca fantasia e nel mio animo debole ed oscillante verso un Dio giusto e potente, che pare tanto grande e tanto inconcepibile alla mia mente. Pure cammino sicuro e diritto; e nella bontà e nell’onestà ritrovo la dignità di me stesso, nel sapere e nella fortezza quella severità rude e rigida con me, gentile, aperta, contenuta con gli altri. La tua immagine, chiusa in fondo al cuore, mi ispira potentemente a tutto questo”.

Finalmente arriva domenica 17 aprile e Luigi ed il professore ripartono per Messina. Dopo tante ore di viaggio, giorno 18 può rivedere il blu dello Stretto. Quando sessantasei anni dopo, rievocando i fatti salienti della sua vita alla presenza di un giornalista che prendeva appunti per scrivere un libro5, profferì la frase che riportiamo, pensava a viaggi, come questo, che lo restituivano alla sua terra: “quando dal traghetto a Villa San Giovanni vedo da lontano le coste dell’isola, provo un senso di commozione. Capisco chi sbarca in una terra e la bacia. Lo farei anch’io”.

All’istituto di fisiologia si inizia a riordinare il materiale accumulato ed i lavori prendono forma. Nonostante giornate intense di lavoro e di studio, la sera tardi passa sempre da Ciccina che lo attende: possono scambiarsi poche frasi, castigate tenerezze, ma si tratta di un premio che lo gratifica e giustifica fatica e sacrificio. Di domenica e nelle altre festività, i minuti di colloqui giornalieri si ampliano fino a qualche ora, trascorsa sentendola suonare il pianoforte o suonando a quattro mani con lei. Ma bisogna trovare anche il modo di guadagnare qualche lira, perché della cifra del concorso è rimasto poco. Non gli è difficile chiedere alle farmacie e sottoporsi nuovamente all’estenuante lavoro di ricopiare migliaia di ricette galeniche e magistrali. Ma se da questa attività notturna che consuma la vista ricava somme modeste di denaro, sedimenterà in lui un patrimonio conoscitivo prezioso, una volta elaborato dalla sua capacità di analisi, collegamento, sintesi, sulla base della cultura medica che va gradualmente incrementandosi: la padronanza dell’arte galenica, che gli consentirà di superare mode e convenienze dell’industria farmaceutica e di prescrivere in futuro sostanze che siano utili al malato e non soltanto alle tasche di qualcuno.

Nell’estate 1932 viene pubblicato sul Bollettino della Società Italiana di Biologia Sperimentale6 il suo primo lavoro: “Eccitazione neuromuscolare mediante campi elettrici variabili”, del “Prof. Pietro Tullio e di L. Di Bella, allievo interno”. Il lavoro viene presentato e commentato in una riunione all’università il 18 giugno, con “presentazione di grafiche e proiezione cinematografica”, si legge in fondo al testo dell’articolo. Luigi Di Bella ha ancora 19 anni! Studente del second’anno, il suo nome figura in una pubblicazione scientifica insieme a quello del più eminente e celebrato fisiologo del tempo: un evento straordinario ed unico nella storia della medicina. Luigi è contento, ma, invece di riposare sugli allori, agli allori non pensa nemmeno un istante e prosegue nel suo impegno. Appariranno gli altri due lavori col nome suo e quello di Tullio, relativi allo stesso filone di ricerche che lo hanno tenuto impegnato in quei mesi: “Ricerche comparative sopra la stimolazione chimica ed elettrica della cute e dei nervi che ad essa si portano” e “Sopra un singolare fenomeno di eccitazione neuro-muscolare”7.

La prima pagina della prima pubblicazione di Luigi Di Bella, ancora diciannovenne “allievo interno” (giugno 1932).

Quanto al tedesco, ormai Luigi è in grado di studiare senza problemi testi scientifici nella lingua di Goethe. Non si tratta di un particolare biografico, ma di un fatto determinante nella sua formazione. Fisiologia, all’epoca, significa essenzialmente Germania ed Italia e la Fisiologia è la scienza della vita, fondamentale perché costituisce il tessuto connettivo ed esplicativo di tutta la cultura medica. Murri ed Albertoni mai sarebbero stati i più grandi clinici della storia della medicina, capaci di una precisione diagnostica che oggi nessun clinico si sogna di approssimare, se non avessero avuto una mentalità squisitamente fisiologica. In termini forzatamente generici e riduttivi, si può dire che la Fisiologia spiega i perché del grandioso edificio umano: se il medico non risale, non è in grado di ripercorrere tutta la concatenazione sequenziale di un fenomeno vitale, non è capace di scomporre e ricomporre, sarà soltanto uno scrivano di ricette; ridurrà tutta la sua scienza ad opinabili sillogismi, a meccaniche connessioni tra sintomo e diagnosi, diagnosi e terapia, suggerite da un’esperienza acritica e grossolanamente empirica. E sarà potenzialmente una mina vagante ed un pericolo per la pubblica incolumità non inferiore alle malattie che è chiamato a curare. Questo Luigi Di Bella lo ha subito compreso, fin da studente del prim’anno. Oggi ancora non lo si è capito: perché non si può, non si vuole, non conviene.

 

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Il periodo estivo trascorse senza particolari novità. Finiti gli esami – Chimica Fisiologica ed Immunologia – Luigi qualche volta riusciva a trovare il tempo per un bagno nello stabilimento che allora sorgeva nel lungomare nord della città, là dove oggi approdano i traghetti privati. Nuotava a lungo, inebriato dalla frescura di quel mare odoroso, che sembrava reso denso dal suo blu violento; un mare insidioso attraversato da correnti forti, improvvise e spesso striate di filoni di acqua fredda. Poteva qualche volta incontrare Ciccina, accompagnata dalle sorelline e da Peppino, struggendosi per la obbligata finzione. Carolina Costa era l’unica al corrente dell’amore dei due e, nella sua saggezza, attendeva che i tempi maturassero per una formalizzazione del loro rapporto. Poi, come ogni estate, Linguaglossa, mamma Carmela, papà Giuseppe e qualche visita a Pellegrino. Proseguirono le abitudini dei pomeriggi domenicali, quando i due fidanzati suonavano a turno, o insieme, il pianoforte o leggevano qualche libro. Ma le visite di Gino erano tanto più sporadiche e brevi quanto più numerosa la presenza di altri. Peppino aveva una naturale predisposizione ed ingegnosità per tutto quanto riguardasse la fotografia e le prime cineprese a manovella, che tentò con successo di costruirsi: così possiamo disporre di qualche istantanea risalente a quegli anni, in una delle quali sono ritratti Carolina, Carmela Di Bella, Filippo, Ciccina Costa e Ciccina Di Bella, Maria. Lo studio, dopo gli esami di Anatomia sistematica, Istologia ed Embriologia superati a novembre, proseguiva intenso e continuo, insieme al lavoro di ricerca all’istituto di fisiologia e, come prima, Gino passava ogni sera, a tarda ora, per un saluto alla fidanzata. Poche le lettere di questo periodo giunte a noi, utili a ricostruire gli eventi. A parte gli esami superati con la media del trenta e lode (Anatomia Topografica, Farmacologia, Fisiologia, Patologia Generale), l’unica notizia relativa all’anno successivo si trae da una lettera del 27 maggio 1933, dalla quale apprendiamo che era partito per Pisa – probabilmente su incarico di Tullio – e che nell’occasione lo accompagnava Filippo; figura un accenno ad un biglietto con saluti per Carolina Costa.

Tullio doveva più dedurre che sapere quali fossero le condizioni di vita familiare del giovane interno, stante l’estrema riservatezza di questo. Comprese comunque che, al di là di qualsiasi dubbio, Luigi poteva sfuggire ad un ambiente che lo opprimeva e che troppo faceva leva su di lui soltanto trovando la propria strada nella vita. Ben sicuro delle qualità dell’allievo, gli consigliò di partecipare ai concorsi annuali che allora erano riservati agli studenti universitari “meritevoli e bisognosi”: nel 1934 Luigi vinse il primo concorso, aggiudicandosi il premio, anche questo, di cinquemila lire. Memore del passato, diede la somma a Ciccina perché la custodisse, al riparo da qualsiasi tentazione; ma senza nascondere la cosa, visto che non mancò una cospicua elargizione a favore dei genitori e dei fratelli. Alcuni di questi, nel frattempo, avevano trovato un lavoro. Giovannino già da tempo si era arruolato nell’Arma, trovandosi a svolgere il suo compito in occasioni spesso difficili e rischiose, quali la lotta senza quartiere che in quegli anni si conduceva – con i fatti e non con le chiacchiere – alla malavita mafiosa del palermitano. Nell’autunno 1934, trasferito per servizio in Puglia, si ammalò gravemente e fu proprio il fratello, studente al quart’anno di medicina, a salvargli la vita, come apprendiamo da alcune lettere di quel periodo. Il 9 ottobre Luigi riceve un telegramma che lo avverte delle gravi condizioni del fratello e parte immediatamente, senza avere il tempo di avvertire Ciccina che, come ogni sera, lo attendeva. “…speriamo che non trovi niente di grave. Ieri sera mi si riempivano gli occhi di lacrime. Povero Giovannino, solo, con quella febbre alta! Lo stringerò al cuore forte forte e gli dirò che non abbia paura, che non senta timore, perché lo assisto io….a Carpino arriverò stasera alle 9,50. Ieri sera tutti piangevano a casa. Filippo poi aveva gli occhi rossi rossi….Ci siamo separati senza neanche abbracciarci e son partito così com’ero, con un solo asciugamano e due fazzoletti”.

Il 13 ottobre:

“…oggi ho fatto trasportare Giovannino da Carpino a Sansevero in automobile e mi trovo qui all’ospedale civile e stanotte dormirò nella sua stessa stanzetta. Egli dorme adesso tranquillamente e appena si sveglierà gli darò il latte. Sapessi com’è ridotto! Un visino pallido pallido, smunto e con le guance infossate. Gli occhi sporgenti e subitterici mi fissano con uno sguardo così penoso da farmi piangere. Tutto in 12 giorni. Micidiale questa malaria. La sua è una terzana maligna pericolosa quanto mai, ma adesso è quasi fuori pericolo. Però son sicuro che se non ci fossi stato io a mettermi decisamente contro la diagnosi dei medici curanti, Giovannino forse ci avrebbe abbandonati. Adesso gli racconto storielle, barzellette e lui mi sorride, si svaga; così migliora di giorno in giorno e spero fra 4-5 giorni gli passi del tutto la febbre. L’altra sera toccò i 41°,6 ed io stavo uscendo matto. Oggi in automobile lo sostenevo come meglio mi riusciva, gli riparavo il sole, gli asciugavo il sudore e lui volgeva lo sguardo sul ciglio della strada a guardare ed ammirare lo stupendo paesaggio. Per metterlo sull’automobile lo vestii tutto io, dal capo ai piedi, lo appoggiai su due cuscini e lo copersi con una pesante coperta….Poverino, lui tanto forte, così pieno di salute, di forze, di energie, starsene ora così fiaccato, così palliduccio, tanto magro! Quando ci penso mi verrebbe di piangere disperatamente….sapessi cosa vuol dire trovarsi in questi momenti, fra gente che non capisce e non comprende te; è una cosa scoraggiante. Un armonioso, melodico suono di armonium riempie adesso l’animo delle sue note; un lieve e gentile canto corale femminile rivolge preghiere al Signore nella cappella dell’ospedale. Una suora ha legato oggi una medaglietta al collo di Giovannino e gli ha chiesto se aveva fede. Egli a bassa voce le rispose affermativamente. Ogni cosetta mi provoca lacrime agli occhi e mi commuove come un bambino; pure non faccio capire niente a Giovannino..”.

Il 15 ottobre Giovannino è fuori pericolo e grandemente sollevato Gino ne dà notizia a Ciccina.

“Giovannino migliora e quanto prima spero ritornare accompagnando lui a Bari. Per gli esami non so come andrà a finire8. Qui da tre giorni mi arrangio con solo pane; in compenso però posso coricarmi. La notte mi alzo un paio di volte per Giovannino. Del resto dormo benissimo…..Giovannino oggi mi parlava, mi baciò la prima volta in fronte. Adesso dorme tanto e lo faccio mangiare molto: quasi un litro e mezzo di latte al giorno; una tazza di brodo di carne grassa con molto riso o pastina e un uovo a mezzogiorno, altrettanto la sera. Poi gli do ancora qualche biscottino, un po’ di cioccolata, acqua e limone quanto ne vuole. Così lo vedo migliorare di ora in ora. Sai quante me ne dice quando gli voglio far mangiare molte cose? Poi però mi dice di perdonargli ed io me lo stringo forte e lo bacio tanto. Ancora è pallido, con le guance infossate e debole sulle gambe. Debbo sostenerlo quando scende dal letto…..le presenti notizie potrai comunicarle anche ai miei, se vai a casa loro…… Angelo mio, da tanto tempo non ti vedo, non ti stringo, non ti bacio……cosa pensavi allora, quando guardavi altrove con lo sguardo, mentre mi parlavi? Ti ricordavi del tuo antico soggiorno, del paradiso e anelando di tornarvi guardavi la luce, che ti ricordava quella divina?”.

Le espressioni di amore fraterno che sono usate nelle lettere riportate, sono tanto immediate ed intense da non richiedere alcun commento, ma costituiscono uno spunto utile per comprendere l’affettività dello scienziato che, come abbiamo cercato di dire nelle pagine che precedono, nascondeva la forza del suo amore sotto un fare laconico e schivo. Merita un attimo di riflessione la sua dissociazione dalla diagnosi ospedaliera, pur in presenza di sintomi piuttosto eloquenti. Dalla successione dei fatti, emerge che la diagnosi giusta era quella dello studente del quart’anno, in seguito forzatamente condivisa dall’equipe ospedaliera: primo episodio di una lunga serie di occasioni che avrebbero visto il grande medico smascherare implacabilmente la mediocrità di persone solo lessicalmente definibili suoi colleghi. Evidentemente i medici ignoranti ed ottusi non sono una prerogativa esclusiva del nostro tempo.

Non possono poi non colpire anche le parole rivolte all’amata, scaturite dalla condivisione di alte idealità e da una percezione misteriosa comune ai veri artisti: la reminiscenza del mondo ultraterreno, che incanta e strugge chiunque la provi. Non credo conoscesse una meravigliosa opera Robert Schumann, poco eseguita in quanto poco capita: ma sono certo che sarebbe rimasto sconvolto dal “ Paradiso e la Peri”, così vicina al suo sentire9.

Superata l’emergenza di Giovannino, Luigi tornò alla consueta attività. Gli esami, che nella lettera citata temeva di non riuscire a preparare, furono superati brillantemente e l’anno si concluse con la pubblicazione del suo nono lavoro10. A parte l’eccezionalità di uno studente della facoltà di medicina – giova ripeterlo – che a ventidue anni ha già un consistente carniere di ricerche pubblicate sulle più accreditate riviste scientifiche nazionali del tempo, occorre osservare che non si tratta di lavori di routine finalizzati a far titolo o punteggio, ma di contributi importanti. Per convenire su questa valutazione, basta esaminarne uno, come quello sulla stimolazione termica della cute: Luigi Di Bella dimostra che, nell’animale da esperimento (una rana), la soglia di eccitabilità nervosa è di 33°-35°. Col crescere della temperatura, si assiste ad una duplice e contrastante tendenza: aumenta la stimolazione delle fibre sensitive, mentre diminuisce la conduttività di quelle motrici, che cessa a 63°. La soglia di eccitabilità cutanea è all’incirca uguale a quella del nervo. Il tempo di latenza si accorcia, la rapidità, ampiezza, durata delle contrazioni riflesse crescono invece col crescere della temperatura11.

Le prospettive comportate da questi risultati costituivano una spinta ulteriore per studiare, apprendere, ampliare l’indagine. Intensificò, in parallelo con il lavoro di laboratorio e lo studio, la preparazione di esami per la facoltà di chimica e quella di farmacia. Gli addetti alla segreteria dell’Università protestavano per le irrituali abitudini del singolare studente, opponevano ostacoli di ordine burocratico, ma Luigi, sostenuto dall’autorevolezza del Prof. Tullio, non sentiva ragioni: “non si può essere buoni medici senza conoscere a fondo anche chimica e farmacologia”. Ormai colleghi e docenti avevano fatto l’abitudine a quelle sistematiche manifestazioni di superiorità, per giunta accompagnate da una modestia ed un’umiltà disarmanti. La padronanza del tedesco gli aveva consentito di immergersi nella lettura degli articoli pubblicati su “Berichte fur die gesamte Physiologie und experimentellen Pharmakologie”, di preparare l’esame di semeiotica sul testo di Paulo Martini e quello di diagnostica differenziale sull’opera, veramente monumentale, dello Schwartz, in ventiquattro volumi. Superava l’avvilimento indotto dalla scoperta dell’immensità delle conoscenze da acquisire con un impegno senza sosta, quasi forsennato. Se possibile, cresce ulteriormente la stima nei suoi confronti da parte dei docenti. Come si deduce da un episodio di quel periodo, già reso noto12. studiando la ‘Clinica delle malattie tropicali’ sulle bozze del libro del Prof. Croveri, il giovane scienziato corredò il testo con tutta una serie di correzioni, osservazioni e note e lo rispedì al docente. Avrebbe potuto costargli caro se il cattedratico, anzi che uomo di valore, fosse stato della stessa pasta di tanti usurpatori di cattedre del giorno d’oggi. Invece Croveri, quando se lo vide davanti all’esame, gli disse: “tu sei quello che ha corretto il libro”; e gli diede il consueto trenta e lode. Ma col brillante studente conviveva ancora il piccolo Gino, quello che faceva indispettire Don Nicolino Pavone. Una fotografia di quel periodo lo ritrae insieme a colleghi di altri atenei a Roma, dove gli universitari che si erano distinti negli studi vennero ricevuti dal gerarca Starace. A dire la verità, il personaggio citato non sembrava esser preso molto sul serio da parte dei giovani universitari, che con aria cameratesca e ostentata spontaneità goliardica se lo issarono sulle spalle, come per festeggiarlo: poi i più….facinorosi, tra grida di “evviva”, approfittarono della circostanza e del chiasso euforico per devastargli le natiche a furia di pizzicotti, mentre l’universitario Luigi Di Bella rideva sino alle lacrime osservando i sorrisi sforzati e le dissimulate smorfie di dolore dell’araldo del regime (nella foto sotto: primo a sinistra del camino)).

 

Non ci è dato sapere se abbia collaborato al supplizio.

Il nuovo anno lo vede concentrato su nuove ricerche, esposte nel decimo lavoro, il primo che rechi il suo solo nome. Si tratta di studi su gas quali CO2 e H2S, e sull’entità della loro tossicità in determinate condizioni: “Inalati saturi di umidità, la CO2 (Anidride carbonica) e la H2S (Idrogeno solforato), contrariamente al CO (Ossido di carbonio), pare esplichino minor tossicità. Sono invece più tossici quando vengono inalati insieme a sospensioni di goccioline d’acqua”. Il lavoro13 troverà presto un utilizzo diverso da quello preventivato. Tullio lo tiene sempre informato sui concorsi ai quali potrebbe partecipare, unica possibilità di mantenersi con le proprie forze ed aiutare la famiglia. L’occasione si presenterà di lì a poco.

La corrispondenza disponibile ci dà qualche informazione su alcuni eventi del 1935. Il lavoro di ricerca è sempre molto intenso e l’estate di quell’anno Luigi raggiunge il Prof. Tullio a Bologna, per completare alcune fasi sperimentali. Il 3 agosto scrive alla fidanzata da Montepulciano Cantagallo:

“…dopo 24 ore di assordante viaggio sono finalmente giunto in questo paesetto, sulla direttissima Bologna-Firenze, e mi trovo in una stanzetta d’albergo al terzo piano, che dà a tramontana sulla strada nazionale e dalla quale si gode un magnifico spettacolo. La stazione mi sta a due passi e domani mattina partirò verso le sette per Bologna. Per giungere in questo alberghetto son dovuto passare sopra un ponticello di legno, le cui tavole si muovevano sotto il mio peso. Al di sotto scorrevano le acque bruno verdastre dell’Arno che ha in queste orride gole dell’Appennino tosco-emiliano le sue umili origini. Infatti l’acqua scorre lenta lenta ed il grigio alveo del fiume si mostra in gran parte scoperto….La gente del luogo è straordinariamente gentile, seria e decisa…In una stanzetta a parte, tutto solo, consumai una frugalissima cenetta consistente in cinque bicchieri d’acqua, un panino e due fettine di prosciutto crudo. Ho pagato tre lire e quaranta! Adesso mi trovo solo con me stesso in questa minuscola stanzetta, tutta raccolta, pulita e graziosa e mi sfogo un po’ l’animo con te, angioletto mio….I mobili consistono in un lavamani con bacinella, secchio e boccale; in un comodino con specchio, spazzola, pettine, bottiglia e bicchiere; in una sedia ed un tavolinetto. V’è infine un lettino piccolo piccolo, con materasso e cuscino. Il silenzio assoluto è interrotto solo da qualche grido di ubriaco abbasso e dal fragoroso strepito dei treni che si susseguono a breve distanza di tempo. Anche un grillo frizza il suo grido penetrante di tanto in tanto e mi richiama alla mente la dolce solitudine di Pellegrino….Oggi ti ho inviato una cartolina da Roma ed altre tre le ho spedite ad Annetta, al Papà, a Giovannino. Domani sarò a Bologna verso le 8,30 e mi metterò subito a lavorare onde finire al più presto. Ricordami angioletto caro, come ti ricordo io; voglimi bene quanto te ne voglio io. Divertiti in queste feste e raccontami tutto quanto, come con prolissa ingenuità ti ho raccontato tutto io…”.

Il giorno dopo, da Bologna:

“L’aria fresca mattutina, pura ed umida, mi metteva nuova vita nelle vene e mi faceva quasi dimenticare di essere in un luogo così estraneo e lontano. Non ti dico gli stupendi paesaggi lungo la nuova linea, né della lunghissima galleria dell’Appennino, al di sotto della quale vi è persino una stazione in perfetta regola. Il professore mi ha accolto con estrema cordialità; era così contento che non poteva quasi parlare. Stava ancora a letto e capì dal suono del campanello che ero io. Dopo una chiacchierata cordialissima di qualche ora, abbiamo fatto colazione. Lui la solita limonata con pane, io una saporitissima zuppa di pane finissimo e latte. Quindi abbiamo incominciato a lavorare. Stasera finiremo di mettere tutto in ordine. Mi ha regalato dei bellissimi volumi di Medicina e chissà quanti me ne regalerà ancora quando partirò. Mi ha voluto dare, subito arrivato, 300 lire e a giorni gli farò il conto. A mezzogiorno ho mangiato con lui la solita pasta alla Bolognese, preceduta da un antipasto di pane e prosciutto e seguita da una “cotoletta” (?) con contorno di fagiolini, patate e zucchine all’aceto, e da frutta. Da domani in poi mangerò solo al ristorante, perché lui mangia sempre minestra e qualche pesce, salvo la domenica in cui mangia carne. Ti scrivo da una cameretta linda e pulita quanto non potresti immaginarla, che si trova nello stesso isolato, presso una vecchietta di 70 anni che vive con un figlio solo. Lei mi parla sempre da non finirla mai, e siccome si esprime in dialetto bolognese non ci comprendiamo affatto; dopo aver tante volte detto e ripetuto tante parole, rimango come un ebete e lei scoppia a ridere in faccia clamorosamente, ed io la seguo perfettamente…..Ti ho sempre pensata da quando ti lasciai, pensando quanto mi vuoi bene…Con la testolina appoggiata sulle mie braccia e con l’espressione della gioia per la mia presenza, contrastata dal dolore per la prossima partenza, mi offrivi quella faccina divina e quel collo delicato di Madonna che ti avrei consumato a baci”.

Pochi giorni dopo il lavoro di ricerca lascia ben poco tempo a Luigi:

“Il professore mi ha presentato ad un’infinità di persone come “suo assistente” e tutti mi chiamano ‘il dottore’! Con le esperienze non siamo venuti a capo ancora di nulla, ma spero dopo pranzo finalmente riuscirci. Non so ancora quando finiremo, ma spero presto perché io debbo studiare e lavorare tanto. Anzi, incomincio a pensare quale difficoltà non presenti già per me il concorso di Palermo: debbo presentare tutto entro il 31 agosto ed ancora non ho scritto niente. Speriamo di riuscirci lo stesso…..partendo ho cercato di guardare dal ferry-boat la tua casetta, ma siccome era già sera avanzata, non sono riuscito a vedere nulla”.

Il giorno di ferragosto è ancora a Bologna:

“..Vorrei venire al più presto, ma il professore non mi vuol lasciar partire a nessun costo e non so come svincolarmi. Lavoriamo dalla mattina fino a mezzanotte, l’una, operando due conigli al giorno e non puoi sapere quanto lavoro ci sia da fare. …Quanto agli esperimenti siamo già riusciti a stimolare elettricamente i canali posteriore e laterale del labirinto del coniglio, abbiamo preso una settantina di fotografie, ma ancora c’è poco di preciso. ….Qui piove e fa lampi e tuoni da diversi giorni. Il tempo è fresco e si sta bene. Io negli intervalli in cui il professore dorme, studio Medicina Legale o scrivo ai miei o a te….La vecchietta di cui ti parlai mi tiene ogni tanto conversazione e mi fa ridere tanto; anche il Prof. nel suo modo di agire e vestire e nelle sue continue baruffe con la Paolina”.

Visita naturalmente la città, che gira in lungo ed in largo, osserva le persone, le loro abitudini, le colline che circondano Bologna, San Petronio. Certo, non c’è il suo mare, ma l’interesse di cose nuove lo assorbe e riesce ad attenuare la nostalgia della Sicilia, il desiderio di rivedere Ciccina. Ora è cosciente delle sue capacità, non dubita di poter raggiungere le mete prefissate, alle quali si prefigura di poter lavorare con il conforto di una nuova famiglia, finalmente in una casa sua, e non in una triste stanzetta in affitto. Certamente non immagina che è destinato a vivere e concludere la sua esistenza ad una quarantina di chilometri da quella città colta, santuario della medicina e del diritto. Finalmente parte, con un po’ di malinconia nel lasciare Bologna, il grande Pietro, sempre più paterno nei suoi confronti, la vecchietta che maliziosamente continua a parlargli in dialetto e l’esasperata Paolina.

Il concorso di Palermo, al quale accennava prima, è stato bandito dalla “Società Italiana per il progresso delle Scienze”. Bisogna sbrigarsi e in una decina di giorni portare a termine il lavoro, che per il momento ha soltanto in testa, a parte alcune letture sull’argomento. Con un impegno ininterrotto, Luigi lo porta a termine. Apparentemente sembra esulare dal suo indirizzo di studi, ma come vedremo non è esattamente così.

Qualche anno addietro, con emozione ne abbiamo ritrovato una copia, rintanata in una libreria del laboratorio di via Marianini. In una carpetta di plastica, con il logo “Surrey Conferences” – ricordo di qualche congresso – erano contenuti 37 fogli, copie battute a macchina con l’uso di carta carbone. Il titolo è: “Contributi agli studi per la protezione di una città dalle offese aeree”. Vale la pena soffermarsi sullo scritto. Alcune considerazioni proiettano nell’imminente tragedia del secondo conflitto mondiale: “La guerra futura sarà il cozzo formidabile di popoli armati, di tutte le loro risorse morali e materiali, e non solo scontro di eserciti e marine…… portandosi l’offesa nemica nell’interno, nel cuore della nazione, le popolazioni inermi ne subiscono in pieno i danni”. Altre affermazioni anticipatrici, relative al ruolo determinante dell’offesa aerea, risaltano per la loro acutezza: “…i suoi quotidiani perfezionamenti….il suo crescendo impressionante di capacità offensive….possono risolvere una guerra o modificarne le sorti in un tempo relativamente breve….l’aeronautica deciderà la guerra”. Di qui una disamina dei mezzi di distruzione: bombe, gas, batteri. Dopo aver passato in rassegna gli effetti devastanti del bombardamento, la capacità di distruggere intere città, le possibili difese (artiglierie contraeree, caccia ecc.), passa a suggerire tutta una serie di misure idonee a proteggere la popolazione, alcune analoghe a quelle che sarebbero state adottate in occasione di bombardamenti su Londra e, successivamente, su città tedesche. Si sofferma sulla necessità di una attenta e specifica formazione del personale medico e paramedico, del potenziamento del corpo dei vigili del fuoco, di informare e preparare la cittadinanza e giunge a suggerire precise strategie, tra le quali misure edilizie: “Non basta costruire i ricoveri; è tutta la nuova edilizia urbana che deve battere una nuova strada. Il principio consiste in questo, che le costruzioni debbono farsi in estensione e possibilmente in profondità, e non in altezza. Occorrono larghe strade con parchi ed ampie piazze; la superficie complessiva delle strade, delle piazze e delle ville deve stare a quella dei fabbricati come 2/1 oppure come 3/2. Occorre che i nuovi piani regolatori siano ispirati tutti a questa necessità, la quale non pare sia ancora entrata nella mentalità degli uomini…”. Anche a costo di trascurare pagine pur interessanti, ci sembra comunque opportuno rientrare “nei ranghi” e soffermarci sul collegamento tra la natura di questo lavoro e le ricerche scientifiche che erano state appena concluse. “Io, in esperienze eseguite nell’Istituto di Fisiologia della R. Università di Messina, ho studiato l’azione dell’acqua a 25°-30° nebulizzata in finissime goccioline sull’avvelenamento di topi con CO, CO2, H2S. Il dispositivo consiste nel far arrivare in una campana di vetro in cui si pone il topo, una sospensione di particelle d’acqua ed il gas contemporaneamente, a pressione e velocità costante, oppure il gas soltanto. Notavo: il tempo occorrente perché comparissero i primi disturbi, il decorso e la forma degli stessi, il momento della morte, studi non tutti facili a cogliersi”. Il risultato dell’esperimento era stato che i risultati erano coincidenti per il CO, mentre nel caso di CO2 e H2S, il tempo nel quale comparivano i primi disturbi era di circa la metà se la somministrazione avveniva con acqua, mentre la morte degli animali avveniva in tempi troppo rapidi (dalla comparsa dei primi sintomi di avvelenamento) per cogliere differenze significative (7’’). Dopo particolareggiate spiegazioni del fenomeno, continua: “Non ho potuto estendere ancora l’indagine agli altri gas, ma credo di poter concludere sin d’ora che la tossicità di un gas tossico può essere potenziata qualora venga inalato insieme a sospensione finissima di particelle del suo solvente”. Cita poi, a convalida delle sue conclusioni, un episodio verificato il 22 novembre 1934, quando una “nebbia venefica” nella valle della Mosa portò all’intossicazione di parecchi abitanti. Il fenomeno, tornando al tema del lavoro, può quindi aggravare la situazione di intossicazione di persone assiepate nei ricoveri, a causa dell’anidride carbonica espirata e della concomitante rapida saturazione dell’ambiente di umidità; lo stesso può avvenire per gas di offesa (cloro, fosgene) che penetrano da fessure e inducendo disturbi notevoli prima ancora di raggiungere concentrazioni tossiche. Ne derivano utili indicazioni diagnostiche e, quindi, terapeutiche, in quanto la sintomatologia si differenzia molto a seconda che il gas sia inalato umido o asciutto. Viene quindi suggerita tutta una serie di misure profilattiche, quali maschere ed autoprotettori da tenere a disposizione della popolazione, istruzioni d’uso da divulgare ricorrendo sia alla stampa che a cinegiornali e non mancano rimedi provvisori d’emergenza: “…un fazzoletto o un pezzo di tela qualsiasi bagnati in acqua o in liquidi leggermente alcalini, quali il bicarbonato di sodio, una scatola di latta il cui fondo sia crivellato di forellini, riempito di radici, erba, paglia, fieno, terra soffice, sì da permettere il passaggio dell’aria attraverso di essa, bastano a proteggere relativamente per un certo tempo”. Non mancano infine suggerimenti, quali quelli dell’uso di particolari sostanze per assorbire l’umidità prodotta dalla respirazione, aspiratori elettrici, la chiusura di fessure con panni impregnati di oli vegetali comuni e vaselina, l’adozione di doppie porte, modalità di esecuzione di bonifiche dei locali successivamente all’azione offensiva subita.

Il lavoro, che aveva richiesto la consultazione febbrile di una grande quantità di testi, tra i quali figurano quelli scritti da eminenti esperti militari, tradisce il rigore di una mentalità scientifica e contempla 62 voci bibliografiche. Non desta meraviglia che Luigi abbia vinto anche questo concorso. Il giorno stabilito per la premiazione parte per Palermo per ritirare il premio al Palazzo Reale. Ma si trova in mezzo ad un turbinare di greche e stellette, ad alti ufficiali riveriti e con una evidente aria di autorevolezza. Si sente piccolo piccolo, imbarazzato, fuori luogo, lui civile fra tanti militari e non osa farsi avanti quando viene pronunciato il suo nome. Alla fine, quando ormai una buona parte degli intervenuti è uscita, si avvicina a capo chino ad un ufficiale e richiede il nome del vincitore del concorso, quasi ancora dubitando possa esservi un errore. L’ufficiale pronuncia il nome Di Bella, poi lo guarda di scatto e: “Ma è lei?”. Lui annuisce. “E perché non lo ha detto subito?”. Gran correre di qua e di là, bisbigli di alti graduati con gli occhi rivolti verso di lui e di lì a poco riceve il premio dal generale Porro, già sottocapo di Stato Maggiore di Cadorna. E’ proprio un attestato autografo in data 8/10/1936, rilasciato da Tullio, che ci fornisce un giudizio autorevole e qualche particolare in più sull’avvenimento, come sempre minimizzato da Luigi: “Le sue ricerche sui gas tossici, la cui ideazione ed esecuzione spettano solamente a lui, non solo prospettano delle vedute originali ed importanti scientificamente, ma hanno giovato al Centro Chimico militare, da cui fu chiamato a darne comunicazione…il premio è stato conferito con parole di vivo elogio da S.E. il generale Porro a lui studente a preferenza di numerosi ufficiali superiori. La relazione venne pubblicata negli atti del Congresso e tra poco comparirà nell’Archivio di Fisiologia”. Il denaro guadagnato può dare una svolta decisiva e cancellare le ristrettezze perduranti: lo consegna a Ciccina perché metta da parte il considerevole gruzzolo rimasto dopo le consuete elargizioni. Ma poco tempo dopo, nell’ambito familiare, gli viene chiesto un prestito per il rifacimento di una casetta e tutti i soldi messi da parte sono consegnati da Ciccina, in attesa della restituzione: che, senza giustificazioni né spiegazioni, non avrà mai luogo.

Riprendono le abitudini della vita messinese: i brevi colloqui serali con Ciccina, l’arcana e severa saggezza del mare, l’evocazione del paradiso perduto che scaturisce dalla tastiera del pianoforte, il sorriso di mamma Carmela rivista a Linguaglossa. I rapporti con la famiglia Costa si sono fatti più confidenziali e Carolina, con la sua composta e materna bonomia, accarezza il cuore di Luigi. Conosce anche Rosalia, sorella di Carolina, le cui vicende coniugali porteranno amarezze nella famiglia Costa. Il marito di Rosalia ha un negozio di motociclette, che poi fallirà miseramente ed il giovane rimedia una vecchia moto che nessun altro vorrebbe, ma ha il pregio di costare quattro soldi. Appassionato anche di meccanica e motori, trova il tempo per bazzicare ogni tanto in quel luogo sempre ingombro di velocipedi e di meccanici con le mani unte d’olio e segue il tentativo, strambo quanto improbabile, di un tecnico improvvisato che si è messo in testa di progettare e costruire un’automobile. I lavori proseguono per mesi e finalmente, una radiosa mattina, il progettista si mette alla guida del mezzo, facendo rombare orgogliosamente il motore con generose premute di acceleratore. Per giunta il mezzo avrebbe anche pretese sportive e quindi il pilota lo porta all’inizio della circonvallazione per potere sfruttare il rettilineo, in discesa, che attraversa il centrale viale San Martino e si conclude alla riva del mare. Con un ruggito l’auto parte, accelera, accelera ancora: un po’ troppo, a giudizio dei presenti. I freni non funzionano e le marce basse non si ingranano. Un bolide, guidato da un discutibile pilota atterrito, attraversa il viale, fortunatamente sgombro di altre auto e dopo mezzo chilometro finisce con precisione millimetrica dove le fogne della città insudiciano il mare. Il progettista indenne, ma con ampie e sospette chiazze maleodoranti sulla tuta, abbandona i rottami e, insieme a questi, ogni velleità. Alla vista del novello Tartarino automobilistico, Gino – è qui il caso di evocare il vecchio nome – passata l’apprensione, si piega in due dalle risate.

Nel frattempo la famiglia Costa si era trasferita dalla baracca in una vera casa, proprio là dove finisce il rione Giostra ed inizia la campagna ed il fondo Basile, di proprietà di una famiglia illustre i cui ultimi discendenti vivono in una villa costruita un poco più a monte. Casa Costa, presa in affitto dalle signorine Basile, è una abitazione indipendente su due piani con terrazza, preceduta su tre lati da strisce di terreno e, sul frontale d’ingresso, da una sorta di terrazzino sopraelevato abbastanza ampio; lungo il muro di confine con un bel villino Liberty, un’aiola ospita una gelsominara, i cui fiori, di un violento ed inebriante profumo, accompagnano spesso le lettere ed i biglietti di Ciccina. La campagna retrostante sale lentamente verso le pendici dei colli, popolata di alberi di fico, grandi nespoli, eucalipti, rovi brulicanti di more e, qua e là, degli immancabili fichi d’India. Un vialetto in terra battuta si fa strada tra qualche area coltivata, morendo contro una fontana semicircolare ombreggiata da tralci d’edera ed ornata da conchiglie cementate tra le pietre: due brevi scalinate ritorte portano ad un’ampia terrazza che dà accesso alla villa Basile.

Casa Costa ed il confinante villino Runci (quadro di Angelo Barbera)

Ora Gino percorre qualche metro in più, nelle brevi visite serali a Ciccina o, il sabato e la domenica sera, per passare un po’ di tempo insieme ai Costa; se la sera fa troppo tardi, entra nel cortile da una porticina laterale e nasconde i suoi biglietti nel carniere, un mobiluccio celestino da esterno nel quale vengono riposte carni ed altre cibarie da cucinarsi il giorno seguente. Spesso è stato preceduto dalle sorelle, più assidue di un tempo, ora che sembra esserci del tenero tra Peppino e Maria Di Bella. Non si sa come, ma Luigi ha trovato il tempo anche di studiare il pianoforte con un po’ di metodo, sotto la guida esperta del maestro della fidanzata, il M° De Francesco, un musicista appassionato, dalle dita rapide e con un naso a patatina. Quando sono soli, la domenica, Ciccina suona i notturni di Chopin, le amate Romanze senza parole di Mendelsshon e Luigi ascolta rapito e si abbandona agli incanti delle melodie, fissando il trasecolare delle tinte pomeridiane sullo sfondo di un canneto lontano. A parte il mandolino e la chitarra – che ha imparato a suonare da solo – ora si destreggia bene anche sulla tastiera, suonando a quattro mani con la più esperta fidanzata intere opere liriche. Così i grandi melodrammi verdiani, le “lunghe, lunghe melodie” di Vincenzo Bellini14, catanese come lui, l’amata Boheme, e la Cavalleria Rusticana, l’opera che, evocando la sua Sicilia, avrà il potere di commuoverlo sempre fino alle lacrime. Forse non si trattava di esecuzioni professionali, ma la musica non è fatta solo di suoni ed un buon orecchio non basta. Abbiamo tutti conosciuto grandi orecchie, collegate a piccole teste e ad anime ancor più anguste, prive di comunicazione con quel mondo più in alto visitato da ben pochi esseri umani; quel mondo che fa da impietoso spartiacque tra musicanti e musicisti, ginnasti della tastiera e poeti del suono: e dove Luigi è di casa.

Ma inevitabilmente il salotto si popola di altre presenze, l’incanto svanisce e questo, unito alla riservatezza del giovane, lo porta ad ammutolire ed a congedarsi.

Nel villino adiacente vive un ufficiale della marina mercantile, il cav. Adolfo Runci, insieme alla moglie e a due cognate. Dopo aver girato il mondo, si è sposato per dovere e senz’amore con Nannina, una lontana cugina rimasta sola al mondo, sorelle a parte, che gli ha fatto sinora da governante. Elegante, dal tratto aristocratico, due baffoni all’insù color pepe da lord inglese più che da siciliano purosangue, sopporta con filosofia ed acuto senso dell’umorismo una convivenza che di certo non lo entusiasma. La cordialità e l’affabilità della famiglia del farmacista, con i ragazzi che potrebbero essere quei figli che non sono venuti, costituiscono un insperato diversivo ed un motivo di interesse alla vita. Affetto e stima tra lui e Luigi sono istintivi e reciproci e presto Adolfo Runci ne diverrà un caro amico. E’ a lui che l’autore di questo libro deve il proprio nome.

Delizioso il villino del capitano. Il giardino è tutto un fulgore di colori, un’alternata miscellanea di profumi: limoni, aranci, bergamotti, rose antiche, gelsomini, che esalano il loro incanto fino agli alti rami di un cedro del Libano che, come austero sovrano, domina quella sinfonia di tinte e aromi dal maestoso ermellino di porpora blu. La torretta imita il tripudio floreale con vetri colorati e, dalla terrazza che ricopre le due ali del villino, si scorge il turchino dello Stretto, arato dalla prua spumosa di barche e vapori15.

Il villino Runci appena ultimato (foto risalente presumibilmente agli anni 1929/30)

In questo clima di affetti, di incanti e calore familiare, Luigi trova coraggio ed incentivi per il suo impegno gravoso, si stringe con maggior confidenza alla famiglia della fidanzata e mostra un amore paterno per il più piccolo e discolo dei Costa, Tonuccio. Questi ha una costituzione delicata, ma un’indole estremamente vivace che gli ha fatto guadagnare il soprannome di “spasciamunnu” (scassamondo).

Questo emulo di Gianburrasca, causa di non poche ansietà per Giovanni e Carolina, che neanche adolescente è montato sull’automobile di uno zio facendo un bel po’ di strada con la più grande disinvoltura prima di essere riacciuffato, si doma come per incanto vicino al futuro cognato.

Così accade quando si rende necessaria la tonsillectomia per porre termine a continue febbriciattole. Nessuno osa pensare alla saga di proteste, corse, pestate di piedi e strilli che si profila, tranne Luigi, che arriva flemme con la sua motocicletta sgangherata, fa un discorso serio e breve a Tonuccio: non parla esplicitamente di intervento, ma gli dice che sarà lo specialista, dopo averlo visitato, a prendere la decisione più opportuna. Non è uomo che si abbassi a mentire, seppure a fin di bene; d’altronde non ne ha bisogno, visto che, quando parla, il tono e la logica scarna delle sue argomentazioni paralizzano qualsiasi replica. Come ipnotizzato, tra il teso, silenzioso, incredulo stupore di genitori e fratelli che trattengono quasi il respiro per non fare svanire la magia, Tonuccio monta sul sellino posteriore del mezzo. In ospedale l’otorinolaringoiatra decide di procedere subito. L’intervento è presto fatto e dopo alcune ore i Costa, che attendono ansiosi, sentono di lontano la tosse sfiatata della moto, e poi vedono comparire il piccolo avvinghiato ad un Luigi serio e tranquillo che, dopo una giravolta ferma la moto, la issa sul cavalletto e riconsegna alla famiglia sbalordita un placidissimo Tonuccio. Il succulento gelato appena gustato placa un poco il bruciore che “Spasciamunnu” sente in gola, e un po’ della stizza per essere stato ‘giocato’ dal futuro cognato.

Probabilmente Luigi pregusta di già una carriera universitaria nella sua terra, ma si avvicina il tempo delle lontananze. Pietro Tullio accetta la cattedra di Fisiologia all’Università di Bari. Luigi deve e vuole seguirlo. Si dissolve il sogno di una vita che, finalmente, sembrava sorridergli con il conforto di una tranquilla laboriosità, accanto a Ciccina e non lontano da genitori e fratelli. E’ vero, manca meno di un anno alla laurea, ma dopo sarà ben difficile continuare studi e carriera nella sua Sicilia. Il distacco è ben più triste di quando partiva per Bologna e dal ferry boat si sente strappare brandelli di petto mentre lo sguardo vaga dalla scia ribollente della nave alle colline inginocchiate davanti a Messina; strizza gli occhi in cerca del villino Runci, là, alla destra del rione Giostra, fissa lo specchio d’acqua davanti allo stabilimento dove qualche volta, nell’estate appena trascorsa, faceva lunghe nuotate. Luccicano i vetri delle case nell’ultimo sole, mentre il vento porta alle narici caldi aromi d’erbe e di fiori frammisti al salmastro. Ripensa a Manzoni, al celebre addio di Lucia, al dolore di chi abbandona la propria terra e che, per un siciliano, è forse ancora più acuto, perché la Sicilia scorre nelle vene, più che davanti agli occhi e non assomiglia a nessun’altro luogo: almeno di questo mondo.

Luigi DI Bella, Bari 1935

Bari richiama certamente molto più di Bologna lo splendore della natura messinese e gli dà la consolazione di poter colloquiare col dio mare. Com’è facile capire il significato dei numi greci, come si percepisce il divino di fronte al lento, titanico respiro delle onde! Come sempre l’attività è incessante e si concentra sulla preparazione della tesi di laurea, delle tesine e degli ultimi esami da sostenere. Prende alloggio alla Casa dello Studente e adotta un rigoroso programma di austerity. E’ vero, Tullio lo ha nominato addetto alle esercitazioni, assegnandogli uno stipendio di quattrocento lire al mese, ma cento servono per pagare la stanza, altrettante sono spedite regolarmente al babbo Giuseppe e poi bisogna pur mangiare, curare il decoro personale, comprare qualche libro. Tanto per cominciare rinuncia a mangiare nelle trattorie e cucina da solo, con l’ausilio di un fornelletto ad olio. Il mattino di ogni sabato va al mercato, compra spaghetti, uova, una scatola di pomodoro da novanta centesimi e sette mele: un terzo di mela a colazione, pranzo, cena. Un sacchetto di legumi non costa niente e fornisce le proteine necessarie. Con un pezzo di sapone da bucato ci si lava e si lava la biancheria per un bel poco e non è difficile nemmeno stirare, con un po’ di applicazione e di pazienza. Ordine, sacrificio ed una volontà di ferro. Indubbiamente lo aiuta una costituzione fisica fuori dall’ordinario, aiutata dal moto quotidiano: ha un corpo asciutto e muscoloso e, se non fosse per la miopia che da qualche anno lo obbliga ad inforcare un paio di occhiali con lenti tonde, si potrebbe definire un atleta.

Saranno la robustezza ed il vigore a salvargli la vita. Una sera, mentre solo è intento a fare esperimenti all’istituto di fisiologia, si trova di fronte un energumeno molto più alto e grosso di lui che lo aggredisce digrignando i denti: è un pazzo scappato dal reparto di psichiatria. Per più di mezz’ora si svolge una lotta furiosa. Non c’è tempo per chiamare aiuto e l’unica cosa da fare è prevalere fisicamente. Più di una volta Luigi si trova con le mani alla gola, si sente soffocare, venir meno, ma reagisce ed alla fine riesce a svincolarsi e ad atterrare e stordire l’uomo con un pugno potente.

Dopo il Natale passato a Messina ed il ritorno alla misera stanzetta di Bari, l’impegno si intensifica ulteriormente. Tullio si rende conto dello sforzo che sta sostenendo l’allievo, ma anche che questi ormai cammina sulle sue gambe e con un passo sicuro e veloce; da grand’uomo qual è, va fiero dell’avere scoperto quel talento, che lo sbalordisce con i suoi progetti di ricerca e già comincia a parlargli delle sue ipotesi sul ruolo che il sistema nervoso deve rivestire su particolari funzioni e fenomeni. Gli esami sono affrontati e tutti superati con le stesse monotone e superlative votazioni. Non c’è tempo, quell’anno, di pubblicare altri lavori16. Il 14 luglio 1936, tre giorni prima di compiere ventiquattr’anni, Luigi Di Bella diventa il Dottor Luigi Di Bella, laureandosi in medicina e chirurgia con 110 e lode e diritto alla pubblicazione della tesi: “La permeabilità ai gas tossici del polmone in rapporto allo stato di umidità”. Ha sostenuto dodici esami in più di quelli regolamentari, oltre a diverse materie della facoltà di chimica e di farmacia.

 


1. “Dallo specchio di fuoco dell’eterno Vero/guarda la gioia, sorridendo, allo scienziato;/verso il colle scosceso della virtù/sospinge essa i passi del sofferente./Lassù, sul monte assolato della fede/scorgiamo sventolare le sue bandiere;/dalle rovine di infrante bare/salire la vediamo tra angelici cori” (F. Schiller, Inno alla gioia).

2. Pietro Tullio era nato il 30 aprile 1881. Il fratello gemello, Giovanni Battista, scomparso a novantotto anni nel 1979, risiedette nella città natale fino alla morte. Palazzo Tullio è stato successivamente acquistato dal Comune e da questo ceduto alla Provincia di Pordenone, che lo utilizza quale sede di uffici propri. Cfr. il sito nobelprize.org,, sub ‘The Nomination Database for the Nobel Prize in Physiology or Medicine, 1901-1949’, e in particolare sub https://www.nobelprize.org/nomination/archive/show.php?id=11670 e https://www.nobelprize.org/nomination/archive/show.php?id=8311 dove appare la candidatura di Pietro Tullio al premio Nobel ed il motivo della segnalazione (“…work on the language and the functions of the ear”). Pietro Tullio è uno dei più gloriosi nomi nella storia della medicina, perlomeno per medici dotati di adeguata cultura e preparazione. I suoi fondamentali contributi sono riscontrabili attraverso ricerche via Internet (ad es.: consultando il sito www. hopkinsmedicine.org). Per un cenno divulgativo sulla sua opera vedi anche: https://it.wikipedia.org/wiki/Fenomeno_di_Tullio e https://it.qwe.wiki/wiki/Tullio_phenomenon ).

3. Film documentario (9 parti + 3 Addendum). Produttore esecutivo: VFF Institute Mare Nostrum e.V. (NPO) – Österreich – Distributore esclusivo: VFF Institute Mare Nostrum e.V. (NPO) – Österreich. Interamente finanziato dal VFF Institute Mare Nostrum e.V. (NPO) – Österreich, senza alcuna tipologia di agevolazione e senza alcun utilizzo di fondi speciali e/o sovvenzioni europee.- Anno di produzione: 2017 – Produced by VFF Mare Nostrum Films Productions. Tutti i diritti riservati VFF Institute Mare Nostrum e.V. (NPO) – Österreich © 2017 – Documentary Film Division – Österreich.

4. Tra i lavori scritti insieme ad Albertoni: Contributo allo studio delle lesioni del Gran simpatico nella nevrosi traumatica, Bologna, 1912; L’alimentation maidique chez l’individu sai net chez le pellagreux, 1914; Ricerche sui Processi digestivi ed assimilativi in un uomo sano con fistola gastrica e chiusura completa dell’esofago, Bologna, 1912.
Questi alcuni dei lavori principali a nome del Prof. Pietro Tullio soltanto: Alcune osservazioni sulla reazione miastenica e sull’importanza della frequenza degli stimoli faradici per la eccitazione e per la inibizione dei muscoli – Gamberini e Parmeggiani, Bologna, 1911; Sul comportamento della circolazione degli arti verso le eccitazioni riflesse, emozionali e volontarie studiato negli emiplegici in riguardo alla sede dei centri vasomotori, Tip. Galileiana, Firenze, 1911; Contributo alla conoscenza dei rapporti fra eccitazioni sensoriali e movimenti riflessi, Tip. Galileiana, Firenze, 1911; Sulla funzione dei canali semicircolari, Arch. di Fisiologia, 1917; L’orecchio, L. Cappelli, Bologna, 1928; Das Alphabet und seine natürliche Entstehung, Coop. Tip. Azzoguidi, Bologna, 1930; I riflessi sonori e la formazione della parola e della scrittura, L. Cappelli, 1930; I riflessi orientativi nello studio delle attività mentali, con una appendice sulla tecnica per lo studio dei riflessi orientativi e sulla microchirurgia auricolare, Nicola Zanichelli editore, 1938, 172 pagg.; Ricerche comparative sulla stimolazione elettrica termica e sonora del labirinto acustico, Tip. Operaia romana, Roma, 1939. Significativa la presentazione di Albertoni al libro “L’orecchio”, sopra citato: “Lo studio sull’orecchio che il mio allievo prof. Tullio ha ora condotto a termine, frutto di pazienti ricerche continuate per vent’anni nell’Istituto di Fisiologia di Bologna, rappresenta un passo notevole della fisiologia nella conoscenza delle funzioni uditive. Il metodo d’esame, consistente nell’osservazione obbiettiva dei riflessi sonori, formerà la base precipua di ogni ulteriore conoscenza della fisiologia e patologia dell’orecchio, e lo studio delle minute variazioni prodotte dalle onde sonore nei liquidi e nelle membrane labirintiche spiegherà il meccanismo dell’audizione, come la conoscenza dei riflessi cutanei e tendinei ha dato sinora base alla Neurologia. L’opera riprende vigorosamente le tradizioni della scienza italiana, poiché l’Autore segue le orme dei nostri massimi cultori della fisiologia dell’orecchio: Valsalva, Cotugno, Scarpa e Lussana. Confido che essa sarà letta con soddisfazione da ogni studioso il quale voglia formarsi una precisa conoscenza sulle funzioni dell’orecchio, e ne faccio all’Autore l’augurio”. Bologna, ottobre 1927 – Pietro Albertoni.

5. Bruno Vespa, op. cit., pag.28.

6. Vol. VII, fasc. 7, 1932.

7. Rispettivamente : Boll. S.I.B.S., 1932, 7, 859-90 e Boll. S.I.B.S., 1932, 7, 290-1.

8. Il 5/11 di quell’anno Luigi superò l’esame di Radiologia con l’unico 24 della sua carriera universitaria, ma dovette rimandare all’anno successivo l’esame di Anatomia patologica (dato il 23/5/35 con il consueto 30 e lode).

9. Nell’oratorio “Il Paradiso e la Peri”, op. 50, per soli, coro e orchestra, il sommo musicista (1810+1856) si ispirò a “Lalla-Rookh”, racconto di Thomas Moore, storia di un’anima che scende sulla terra a riconquistare la beatitudine eterna.

10. Questi i lavori pubblicati successivamente ai primi tre sui quali prima riferito: Ricerche comparative sopra la stimolazione termica della cute e dei nervi che ad essa si portano. Boll. S.I.B.S., 1933, 7, 347-9. Ricerche comparative sopra la stimolazione chimica della cute e dei nervi che ad essa si portano. Arch. Sc. Biol., 1933, 18, 515-40. Eccitazione puntiforme dei centri nervosi della rana mediante campi elettrici variabili. Boll. S.I.B.S., 1934, 9, 19-22. Ricerche sopra l’eccitazione dei filamenti e dei centri nervosi mediante campi elettrici variabili. Riv. Pat. Nerv. e mentale, 1934, 42, 673-98. Recherches comparatives sur la stimulation chimique de la peau et de ses nerfs. Arch. It. Biol., 1934, 91, 123-38. Nuovi procedimenti per riempire completamente i lobi del polmone con liquidi opachi, non assorbibili e medicamentosi. Boll. S.I.B.S., 1934, 9, 15-18.

11. Il sunto del lavoro è stato ricavato da un breve “Curriculum vitae e carriera didattica” curato dallo stesso scienziato ed allegato ai concorsi universitari ai quali partecipò alla fine degli anni quaranta.

12. Bruno Vespa, op. cit., pag. 32, 33.

13. Importanza dell’umidità nell’avvelenamento con CO2 e con gas illuminante nei topi. Boll. S.I.B.S., 1935, 10, 14-5.

14. Espressione di Giuseppe Verdi, grande ammiratore del compositore siciliano (ndA).

15. Il villino fu progettato dall’architetto Camillo Autore (1882+1936), allievo di Ernesto Basile. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Camillo_Autore . Dopo la scomparsa del cav. Runci (1955), della moglie e delle cognate (fine anni ’70), conobbe un lungo periodo di abbandono e di degrado. Fortunatamente é stato salvato dalla demolizione e riportato anzi a nuova vita e nuovo splendore dal nuovo proprietario, che ben consapevole del valore storico e artistico dell’edificio, ha attuato un meticoloso e costoso restauro, fedele in ogni particolare (attualmente ancora non ultimato), fissandovi la propria residenza.

16. Questo l’eloquente ‘congedo’ dalla facoltà: 6/6/1936 Ortopedia (30), 8/6 Cultura militare (30 e L), 11/6 Clinica Chirurgica (30), 14/6 Clinica pediatrica (30 e L), Clinica ostetrica ginecologica (30), 24/6 Semeiotica medica (30), 30/6 Clinica medica (30). Tenuto conto delle lodi, la media fu del 30,8 ad esame. La documentazione relativa agli esami sostenuti per la facoltà di Medicina è stata messa a disposizione dall’Università di Bari.

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